*****ROXY E' TORNATA!

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Con grande eccitazione Roxy vi comunica che riparte l'aggiornamento costante del suo blog.Dopo una lunga pausa vi invita tutti a seguire i suoi post dedicati al mondo del sesso e più intrigante erotismo.Buona Lettura

Adult Ego

martedì 14 luglio 2009

SULLA SPIAGGIA DI PLITRA


Erano trascorsi almeno quattro anni dall’ultima volta che l’avevo incontrata.

Con Veronika ero stata compagna di scuola per tutto il periodo delle superiori, ma la nostra frequentazione, pur essendo abbastanza stretta, non era mai tradotta in un’amicizia vera e propria, una di quelle amicizie così tipiche tra le adolescenti.
Le mie amiche del cuore erano state altre ragazze, e con Veronika non ero mai arrivata a quel livello di confidenza che s’instaura, molto spesso, fra due compagne di classe.
Qualcosa d’indefinibile si era sempre frapposto fra noi due, impedendoci di stabilire un legame più stretto.
Poi, avendo intrapreso studi universitari completamente diversi, e per di più in città lontane, non era più successo che ci cercassimo, tanto meno che c’incontrassimo.
Fino a quella sera, alla sera sulla spiaggia di Plitra.

Damian, il nuovo ragazzo di mia cugina, aveva organizzato una festa per la metà di agosto nella sua casa di famiglia a Plitra, un villaggio affacciato sul mare nel sud del Peloponneso.
E a quella festa, alla quale avevo deciso di partecipare solamente dopo le molte insistenze di mia cugina, avevo rivisto, dopo tanto tempo, Veronika, la mia ex-compagna di scuola.

Bionda, un viso delicato e dall’ovale perfetto, Veronika era stata da sempre una gran bella ragazza, e gli anni trascorsi tra la tarda adolescenza e la maturità le avevano donato un fascino ancor più evidente.
Gli occhi verdi e intelligenti, le labbra morbide e carnose, un seno generoso, ma non eccessivamente vistoso, vita stretta e gambe tornite e slanciate, la mia ex-compagna delle superiori era sicuramente tra le più belle ed appariscenti ragazze presenti a quella festa.
Fisicamente molto diversa da me, che sono scura, sia di capelli, che di occhi e carnagione, qualche centimetro di certo meno alta di lei, e un tantino più formosa: diciamo che, però, nel novero delle ragazze più interessanti e carine presenti quella sera, il mio posto sul podio della più bella non me lo levava nessuno.
E il gradino più alto di quell’immaginario podio spettava, in tutta onestà, proprio alla ragazza che non rivedevo da così tanto tempo.

Veronika era arrivata alla festa in compagnia di Dimitri, il ragazzo con il quale era fidanzata da un paio d’anni.
Al contrario di lei, quella sera io ero arrivata da sola, dal momento che la mia ultima storia si era conclusa, e in malo modo, quasi quattro mesi prima.

Dimitri, il suo fidanzato, era un ragazzo prestante ed atletico, dall’aspetto un pò selvaggio e ribelle, capelli lunghi e neri, barba di qualche giorno sulle guance e orecchino al lobo destro: un gran bel ragazzo, uno di quei tipi da cui le donne si sentono immediatamente e irresistibilmente attratte.
Se anche lui si fosse presentato da solo a quella festa, di certo mi avrebbe fatto molto piacere riuscire a trascorrere la serata in sua compagnia.

Dopo i baci e le presentazioni di rito, Veronika ed io iniziammo subito a ricordare i vecchi tempi della scuola, riportando alla memoria aneddoti ed episodi di quegli anni, il tutto sotto lo sguardo attento e divertito di Dimitri.
Per farla breve, Veronika, Dimitri ed io trascorremmo insieme, e piacevolmente, quasi l’intera serata, al punto che, verso l’una di notte, con la musica ancora a tutto volume, sicuramente tutti un pò storditi dal rumore e da qualche bicchiere di troppo, i due mi proposero una passeggiata sulla spiaggia in loro compagnia.
Stanca di tutto quel frastuono e accaldata per aver lungamente ballato, accettai con piacere il loro invito.

Passammo per il giardino della casa, scendemmo sulla spiaggia e c’incamminammo lentamente lungo il bagnasciuga, Veronika e Dimitri mano nella mano, ed io accanto a loro.
Mi sentivo un tantino la terza incomoda, per la verità, ma mi era stato impossibile anche solo pensare di rifiutare il loro invito così spontaneo.
Dopo il caldo della festa, l’aria mi sembrava piacevolmente fresca, e la luna quasi piena illuminava la spiaggia, rendendo fosforescenti le bianche spume delle piccole onde che si frangevano a riva.
Godendomi quella camminata rigenerante, continuavo a chiacchierare del più e del meno con la coppia che mi accompagnava.

Dopo una decina di minuti giungemmo ad un ammasso di scogli che, di fatto, interrompeva la spiaggia su quel lato.
Prima di tornare indietro, e desiderosi tutti e tre ancora di un pò di tranquillità dopo il baccano della festa, ci addentrammo di qualche metro tra le rocce, cercando, nella pallida luce lunare, uno scoglio piatto e liscio, in modo da potersi mettere seduti per qualche minuto.
Senza difficoltà trovammo quello che cercavamo: una larga pietra, levigata alla perfezione dall’incessante azione dell’acqua del mare.
Fu così che ci mettemmo seduti ad ascoltare la risacca, lo sciabordio quasi ipnotico dell’acqua tra gli scogli, unico rumore nel silenzio che ci circondava.
Ricordo perfettamente quei momenti, come se li avessi vissuti una settimana fa, e non fossero in realtà trascorsi cinque anni da allora.

Veronika indossa una camicetta bianca, molto scollata e sexy, discretamente e maliziosamente trasparente, e che lascia intuire, in modo abbastanza evidente, la linea e la forma dei suoi seni, così tonici e perfetti: i primi due bottoni dell’indumento sono aperti, ed il solco fra i seni è generosamente messo in mostra, a catturare lo sguardo del prossimo.
Piccoli e astuti trucchi prettamente femminili, invero.

Ora è Dimitri che anima maggiormente la conversazione, raccontando storie e vicende, decisamente assurde e poco probabili, ma molto divertenti, di alcuni suoi amici.

Dopo qualche minuto di quelle chiacchiere, mi accorgo che lo sguardo di Veronika si è fissato su di me, come se lei avesse voglia di dirmi qualcosa e non trovasse le giuste parole per comunicarmelo.
- Dimmi… – le chiedo, incuriosita da quella sua espressione.
- Nulla… – mi risponde lei, sorridendo e scuotendo la testa, i suoi lunghi capelli biondi ad ondeggiare nella brezza notturna – … è solo che mi piace guardare il tuo viso… sei veramente molto bella, Eleni… -
E così dicendo, Veronika allunga una mano e mi accarezza dolcemente i capelli.
Le sorrido, sorpresa e compiaciuta di quell’inatteso complimento, rivoltomi, oltretutto, da una donna che, in fatto di bellezza, non ha da invidiare niente a nessuno.
Non ho tempo, però, di soffermarmi su quell’improvviso gesto d’affetto di Veronika, perché sento subito la calda mano di Dimitri accarezzarmi, e con estrema dolcezza, la pelle nuda della mia gamba destra.
In un attimo la soddisfazione per le parole pronunciate della mia amica dei tempi della scuola si trasforma in evidente imbarazzo.
Quella mano di Dimitri che scorre sulla mia pelle mi getta in uno stato di totale confusione.
Guardo Veronika, e la vedo nuovamente sorridere.
La sua mano torna ad infilarsi tra i miei capelli.
Sono sempre più a disagio, di certo infastidita da quel loro strano comportamento, e incapace di dire una sola parola.
Sento di avere il viso in fiamme per l’imbarazzo.
La mano della ragazza scende lieve dai miei capelli al collo, e le sue lunghe e sottili dita mi sfiorano la pelle, quasi a volermela solleticare.
Incapace di ogni reazione, assolutamente sorpresa da quella loro iniziativa, guardo entrambi negli occhi, e vedo le loro espressioni tranquille e rilassate, ma anche chiaramente eccitate; noto particolari che mi sono fino ad allora sfuggiti, come le piccole e affascinanti rughe, che si formano ad ogni sorriso, agli angoli della bocca di Dimitri, o che il terzo bottone della camicetta di Veronika sia stato ora anch’esso slacciato, ed i seni della ragazza si mostrino quasi completamente scoperti, o come ancora il rigonfio del pene in erezione nei pantaloni del ragazzo…

La mano di Dimitri risale sulla mia gamba, fino alla coscia, leggera ma insistente: quindi s’insinua sotto la corta gonna che indosso, e avverto le sue dita farsi strada fra le mutandine, spostandole abilmente di lato.
Sono immobile come una statua, rigida per la tensione.
Non so proprio cosa fare e come comportarmi di fronte a questo loro improvviso e assolutamente inatteso assalto sessuale.
O meglio, lo so perfettamente cosa dovrei fare.
Dovrei di certo alzarmi… magari buttarla sul ridere… giusto per vincere l’imbarazzo e per non fare la figura della bacchettona… dovrei dir loro che si è fatto tardi, e che sarebbe il caso di tornare indietro, alla festa… dovrei dire tutto questo e altro ancora… ma… ma qualcosa mi blocca… m’impedisce di avere quella reazione che sarebbe forse logica e giustificabile in chiunque… perché… perché quello che sta accadendo mi piace… mi piace moltissimo… e inizia ad eccitarmi da morire…
Veronika continua ad accarezzarmi il collo, e le dita di Dimitri mi sfiorano il sesso con sempre maggiore insistenza.
Sto perdendo la testa, lo sento, eccitata sempre di più ogni istante che passa.
La bianca luce della luna ci avvolge e ci accarezza, ed il frangersi delle onde è una musica che sembra volerci cullare.

E’ un attimo.
Di sicuro un momento d’improvvisa follia.
La mia mano destra, d’impulso, si posa sui pantaloni di Dimitri, all’altezza del ginocchio: quindi prende a salire, con una sfacciataggine che mai avrei pensato mi potesse appartenere, alla ricerca di quell’invitante rigonfiamento che tende la stoffa.
Ora lo sento sotto il palmo.
E’ duro come il granito… e le sue dimensioni mi lasciano senza fiato…
Veronika mi sorride complice e mi prende l’altra mano, appoggiandola sulla sua coscia nuda.
Mi sento percorsa da un lungo brivido.
Non solo di disagio, ma anche, e soprattutto, d’intenso piacere.
Non ho mai toccato, in quel modo, un’altra donna.
Mi rendo conto, con enorme sorpresa, di averlo forse desiderato, però, da sempre.

Lei continua a fissarmi e a sorridere.
- Dai, Eleni… è bellissimo… fai come me… -
La sua mano abbandona i miei capelli e la pelle del mio collo, e scende verso il mio sesso: le dita di Veronika sfiorano quelle della mano del suo ragazzo, che tiene le mie mutandine scostate di lato.
Sussulto a quel contatto, mentre le dita della mia amica iniziano a sfiorarmi dolcemente la fica.
Premo ancora più forte con la mano sul turgido cazzo di Dimitri, ancora trattenuto dai pantaloni.
Ho voglia di stringerlo nella mano, riempirmi il pugno di quella sua calda e fantastica consistenza.

- Tiratelo fuori, presto… -
E’ la mia voce, ma non è la mia voce.
Perché ha un timbro così carico di desiderio che mai ho sentito in passato.
E’ roca, bassa, quasi gracchiante, un filo di voce che reclama solo il piacere fisico.
Dimitri obbedisce all’istante a quella mia richiesta che è quasi una supplica.
E mentre lui si apre lentamente i pantaloni, mi accorgo, e la cosa mi esalta ancora di più, che Veronika non indossa le mutandine.
Sotto la gonna è completamente nuda.

Le mie dita incerte incontrano i suoi morbidi peli del pube.
Muovo impacciata la mano sulla sua fica, sbalordita da questa nuova e fantastica esperienza.
La sento già bagnata, fradicia delle sue tiepide secrezioni.
Veronika è visibilmente eccitata.
Accarezzo, sfioro, tocco appena le sue grandi labbra, e poi lambisco il clitoride, subito duro e fremente.
- Bravissima, Eleni… così… sì… continua così… dai, non ti fermare… mi piace… da morire… -
Mentre mormora queste parole, Veronika scivola in giù con il bacino e allarga le gambe: agevolato da questi suoi movimenti, il mio dito medio s’infila rapido nella fica, ora grondante degli umori dell’eccitazione.
La sento godere, mentre la sue dita mi torturano il clitoride, abilmente, sapientemente, meravigliosamente.
L’imbarazzo di poco prima è solo un ricordo.
Ora c’è spazio soltanto per il piacere.

Guardo il cazzo di Dimitri, che ora lui ha tirato fuori dai pantaloni.
E’ splendido e grande.
Ed è durissimo, svettante e congestionato.
Il ragazzo ci osserva, mentre Veronika ed io continuiamo a masturbarci a vicenda.
All’improvviso sento la bocca del ragazzo sul collo, avverto il tepore del suo respiro solleticarmi l’orecchio, ed il suo profumo di maschio mi fa girare la testa.
La sua voce è un bisbiglio dannatamente erotico e sensuale.
- Leccamelo… prendilo in bocca, Eleni… succhiamelo e fammi impazzire… dai, lo so che ti piace e che non aspetti altro… -
Ho il cuore in gola per l’emozione, e sento l’orgasmo salire, stimolato stupendamente dalla mano di Veronika.
- Si… fagli un pompino… ora, Eleni… prendigli il cazzo in bocca… subito… -
La ragione è una parola per me, ormai, sconosciuta.
Sono pazza di desiderio.
E non li faccio attendere neanche un istante.
Mi piego su quell’asta turgida, su quel cazzo che mi attira come una calamita.

Le mie labbra si stringono vogliose su quello splendido palo, che pulsa e sussulta, scivolano in su ed in giù, assaporando fino in fondo l’intenso odore di Dimitri.
Ho lasciato con la mano la fica di Veronika, e le mie dita, ancora umide del suo piacere, iniziano ad accarezzare lo scroto del suo ragazzo, giocando con i suoi duri testicoli.
Veronika resta a guardarci per qualche istante, poi si sposta e scivola tra le mie gambe aperte.
Mi rendo conto che le sue mani mi stanno sfilando le mutandine: io l’assecondo, muovendomi piano e continuando a succhiare avidamente il cazzo di Dimitri.

Le dita di Veronika (oh, che mani fantastiche le sue…) allargano delicatamente la mia fica, e la sua lingua s’insinua decisa all’interno, regalandomi attimi di paradiso; poi sono le sue labbra ad abbracciarmi e a stimolarmi il clitoride, trascinandomi in un delirio di piacere.
Sono eccitata come mai in vita mia.
Muovo freneticamente il bacino, assecondando quella sua infernale lingua.
Le mani di Dimitri sulla mia testa spingono verso il basso, dettando un ritmo sempre più veloce al pompino che gli sto facendo.

Sento la sua liscia cappella scorrermi sul palato, scivolarmi fino in gola… mentre io sto venendo sulle morbide labbra di Veronika, squassata da un orgasmo tanto intenso quanto dolcissimo.
Quando si accorge di avermi fatta venire, la mia amica lentamente si rialza: la sua lingua abbandona la mia fica e prende a scorrere lungo l’interno delle cosce, leccandomi con sublime delicatezza.
Poi, in un attimo, le sue mani mi alzano la maglietta, ed i suoi baci arrivano ai seni, i suoi denti mordono leggermente i miei capezzoli, duri ed eretti come piccoli chiodi sporgenti.
Ora mi rialzo anche io, lasciando il cazzo di Dimitri, completamente bagnato della mia saliva.

- Mettiti qui, Eleni… vieni… sei veramente bellissima… dai… mettiti qui… e apri le gambe… -
Veronika, la voce affannata e carica di libidine, mi sta indicando la parte destra della piatta roccia che è stata la nostra alcova, il lato di fronte a quello dove siede il suo ragazzo.
Mi sposto e mi siedo dove lei mi ha chiesto di andare.
Mi sfilo in un lampo la maglietta e la gonna e ora, completamente nuda, allargo le gambe a mostrar loro la mia fica ancora bollente di desiderio.
Anche Veronika si alza e in un attimo si spoglia, meravigliosamente nuda per i miei occhi.
Ora è lei che inizia a giocare con il cazzo del suo ragazzo, facendo scorrere le mani su quella dura delizia.
Li guardo, morbosamente attratta da quella vista.

- Masturbati, Eleni… dai… fallo davanti a noi… -
Sento la voce di Dimitri giungere molto da lontano.
La mia mano scende alla fica, le gambe totalmente divaricate, due dita ad allargare le labbra…

Veronika va a sedersi sulle gambe di Dimitri, dandomi la schiena.
La vedo agitare il bacino su quel palo di carne che, lentamente, si fa strada fra le sue stupende natiche.
Poi la ragazza spinge verso il basso, sempre più forte e con decisione, fino ad impalarsi completamente, il culo pieno di quella carne pulsante.

Stravolta dall’eccitazione, mi sposto e vado a mettermi seduta di fianco a Dimitri, spalancando ancora le gambe e continuando a masturbarmi sempre più velocemente.
Soffocata dal piacere, guardo la mia amica che si accarezza le tette, godendo senza ritegno di quel cazzo che le riempie il culo.
Il mio stato di esaltazione è talmente evidente che Veronika allunga una mano e mi accarezza le cosce, mentre Dimitri continua ad incularla con sempre maggior frenesia.

- Continua a masturbarti, Eleni… non smettere… ti prego… -
Sono parole smozzicate ed ansimanti quelle pronunciate da Dimitri, la sua eiaculazione ormai vicinissima.
Con un dito stuzzico e premo con crescente rapidità sul clitoride, il delirio dell’ennesimo orgasmo di quella notte ad un passo.

Due dita della mano di Veronika mi penetrano di colpo, e la fragile diga del mio piacere cede di schianto, trascinandomi in un abisso di sensazioni uniche e travolgenti.
Anche Dimitri viene, inondando di sperma le viscere di Veronika, che sussulta e rabbrividisce insieme a me, anche lei squassata da un incontenibile orgasmo…

Dopo esserci ricomposti, tornammo verso la casa, dove la festa, ormai, era quasi terminata.
Ricordo che con Dimitri e Veronika non parlammo di quanto accaduto, ancora sconvolti e inebriati da quelle meravigliose sensazioni appena vissute.
Il tempo di salutare coloro che ancora si attardavano, e andammo via dalla festa e da quella casa.
Veronika e Dimitri sulla loro auto, io con la mia.

All’incrocio con la statale, la loro auto si fermò allo stop, ed io dietro di loro.
Vidi Veronika scendere e, di corsa, venire accanto al mio finestrino aperto.
Ci guardammo negli occhi per alcuni lunghi istanti: quindi lei avvicinò le labbra alle mie e le sfiorò con un delicato bacio.
Sorridendomi, lei mi disse: – Telefonami, Eleni… questo è il numero… -
Dalla sua mano presi un piccolo foglietto di carta.
Poi lei scappò via, risalì accanto a Dimitri, e la loro auto, in breve tempo, scomparve nella notte.

Tre giorni dopo, ancora confusa e incredula per quanto accaduto, mi tornò tra le mani quel pezzo di carta con il numero telefonico di Veronika.
Se avessi voluto seguire i miei istinti, le avrei immediatamente telefonato, e di certo avrei potuto rivivere con loro quelle indimenticabili emozioni.
Ma, in fondo al mio animo, sapevo perfettamente che non era quella la strada migliore per me.
Avevo finalmente riconquistato un minimo di lucidità.
Fu per quella ragione che gettai via il numero di telefono dei miei due amanti di una notte, conservando però gelosamente il prezioso ricordo di quanto accaduto sulla spiaggia di Plitra.

Non ho più incontrato Veronika e Dimitri.
Ed evito, ancora oggi, di tornare su quella spiaggia.

FINE



TRA LA NEBBIA DEL GREKOHORI

“La vita non si misura da quanti respiri facciamo, ma dai momenti che ci tolgono il respiro.”

George Carlin

Il parco del Grekohori è avvolto nella nebbia.
Fitta, densa, spessa.
L’umidità penetra sotto la pelle, trasformando il freddo di questa notte di gennaio in un brivido gelido che si propaga in tutto il corpo, che s’irradia e s’insinua, subdolo e fastidioso, tra muscoli ed ossa.
Gli alberi scheletrici, i rami nudi e spogli, con solo il ricordo delle foglie, sembrano morti, angosciosi pezzi di legno sgocciolante che aspettano la primavera, il suo tepore e, con esso, l’annuale risveglio della natura.
Non c’è anima viva in giro, ed anche il sentiero che costeggia il fiume, così affollato di giorno, è completamente deserto.
Per un attimo mi viene da pensare che un regista non potrebbe trovare set più adeguato per girare un eccellente film dell’orrore.
Ci mancano solo i vampiri e gli zombi a completare l’atmosfera di questa notte desolata.

Solamente lei ed io ci troviamo a camminare nel buio e nel silenzio ovattato della fitta nebbia.
Unici coraggiosi, o incoscienti, ad avventurarsi nel solitario parco del Grekohori.
Di tanto in tanto superiamo una panchina, sola e abbandonata.
Non siamo, ovviamente, né vampiri e né zombi di quel film che nessuno sta girando, ma i nostri passi echeggiano ugualmente sinistri e spettrali nella notte.
I suoi tacchi, poi, esageratamente alti, martellano l’asfalto bagnato del vialetto, trasformandosi in un rumore che appare assordante, in un’eco che sembra rimbalzare sul muro di nebbia che ci circonda.

Le due di notte sono passate da poco.
Siamo usciti dal pub da una decina di minuti, e già siamo intirizziti dal freddo.
Ma fra poco ci scalderemo a vicenda, ricacciando il gelo lontano da noi, lontano dai nostri cuori, dalle nostre anime e dai nostri sensi.

Ci siamo conosciuti solo tre ore fa, tra una birra e una suma, sulle dolci melodie che il pianista suonava.
Il locale, luci soffuse, ambiente intimo, invitava agli incontri e alle confidenze.
Una conoscenza superficiale, certo, ma fra noi è scattato subito un qualcosa, un’attrazione folle e disperata, urgente ed irreale.
Abbiamo tenuto a freno la voglia improvvisa di toccarci, di sentire i nostri corpi uniti, di carezzare e di baciare.
Ma quando siamo usciti, a braccetto, sentivamo di non poter aspettare un attimo di più, e così ci siamo diretti verso l’ingresso del Grekohori, questo grande parco nel cuore della città, la nostra improbabile alcova per questa notte nebbiosa e solitaria.

Ci siamo presentati e poco altro.
I lavori che svolgiamo, le ultime vacanze fatte, cosa ci piace da mangiare.
Poche frasi, necessarie solo ad accompagnare quel flusso di parole non dette ma che i nostri sguardi si sono trasmesse con un’intensità mai provata.
E’ bastato guardarci, e abbiamo sentito entrambi il medesimo desiderio.
Fare l’amore e liberare i nostri sensi.
Darsi ad uno sconosciuto e prendere una sconosciuta.
Due urgenze che si sono magicamente incontrate, per fondersi in un’unica e dolce pazzia.

Continuiamo a camminare sul sentiero che costeggia il fiume che accompagna il lato sud del Grekohori.
A destra l’acqua che scorre placida, invisibile nella nebbia; a sinistra, prati e cespugli, radi alberi ed arbusti, anch’essi sfumati, inghiottiti dalla bianca cortina.
Cerchiamo un posto che ci garantisca un pò d’intimità, anche se potremmo scopare in mezzo a questo vialetto senza correre il rischi di venire scoperti.
Le persone con un briciolo di sale in zucca se ne stanno a casa: a dormire, a litigare, a guardare la tv, a fare l’amore. Ma al caldo, tra quattro mura.
Ma noi, lei ed io, di sale in zucca ne abbiamo poco, e continuiamo a vagare per il Grekohori alla ricerca di un angolo ancora più tranquillo e riservato.
Ci teniamo per mano, ora.
Malgrado il freddo, sento la sua pelle calda e asciutta, le sue dita sottili intrecciate alle mie, i suoi anelli che quasi mi graffiano.

Sulla sinistra gli alberi s’infittiscono, creando quasi l’illusione di un piccolo bosco.
E’ il posto che andavo cercando.
La voglia di averla è tale che decido immediatamente che il luogo è più che adatto; usciamo dal sentiero e, camminando sull’erba fradicia di umidità, ci inoltriamo nel verde; pochi passi e la nebbia, alle nostre spalle, cancella il sentiero che stavamo percorrendo.

Il buio e la nebbia ci impediscono di vedere oltre la punta dei nostri rispettivi nasi.
Facciamo ancora qualche passo, le foglie ormai secche che frusciano sotto i nostri piedi, e andiamo quasi a sbattere contro il tronco di un’enorme quercia.
Siamo soli ed invisibili.
Avvolti dall’oscurità, stretti dalla fitta ed impenetrabile nebbia.

L’attiro a me e, finalmente, la bacio.
Labbra su labbra, lingua con lingua.
Le sue mani sono già sotto il mio giubbotto e mi stanno sbottonando la camicia.
Mi sembra di conoscerla da una vita, anche se non la conosco per niente.

Mi apre la camicia ed il morso del freddo sul petto è quasi eccitante.
Le sue dita mi esplorano, stuzzicandomi i capezzoli, e le sue lunghe unghie mi percorrono i pettorali, li disegnano e li tratteggiano con movimenti circolari ed insistenti.
Anche le mie mani si sono messe all’opera, aprendole il caldo piumino e sollevandole la maglietta: i seni, piccoli e perfetti, chiedono solo di essere toccati, sfiorati, accarezzati.
Ci diamo calore vicendevolmente, ed il freddo umido di questa notte invernale è solo un ricordo che fugge via nella nebbia del Grekohori.

I seni, che a malapena intravedo nell’oscurità, più candidi rispetto al resto della pelle ancora abbronzata, m’invitano, sollecitano la mia eccitazione, mi provocano impertinenti, quasi a volermi sfidare.
Scendo con la bocca su di loro, percorrendoli in punta di lingua, stuzzicando i capezzoli duri ed eretti, sporgenti non più per il gelo, ma per la voglia di essere presa che dilaga nella ragazza.
Le sue mani mi arruffano i capelli, mi tirano su, e la mia bocca si ritrova nuovamente incollata alla sua.
Febbrilmente, mentre le nostre lingue si aggrovigliano frenetiche, le sue mani mi allentano la cintura, mi sbottonano i pantaloni e s’insinuano dentro gli slip.
Mentre con le dita di una mano impugna e stringe il mio pene, con l’altra mi accarezza i testicoli, mugolando sempre più eccitata.
L’erezione è ormai al massimo del suo turgore, e la voglia di penetrarla mi esplode violenta nel cervello, facendomi dimenticare chi sono e dove mi trovo.

Mi sta masturbando delicatamente, ma lo stato di tensione erotica in cui sono sprofondato non mi consente di godermi le sue carezze: sto per venire, sto per inondarle le dita di sperma, e sono vicinissimo ad urlare tutto il mio orgasmo.
E allora le sollevo la gonna, tirandole in giù le minuscole mutandine che indossa.
Freneticamente lei le scalcia via, liberando le gambe dall’indumento.
Chissà dove saranno finite.
Sarà un problema ritrovarle, dopo.
Ci giriamo, fino a che la mia schiena è appoggiata al tronco dell’albero che assiste, impassibile, alle nostre effusioni.
Il silenzio della notte è rotto solo dai nostri sospiri.
E la nebbia è sempre più fitta.

I miei slip sono scesi lungo le cosce, ed il cazzo svetta impaziente.
La sollevo (è leggera, sinuosa, morbida, fantastica) e l’attiro a me.
Lei piega le gambe, serrandole attorno ai miei fianchi, agevolando il mio compito.
La punta del mio cazzo incontra immediatamente la sua fessura, fradicia di umori, e la penetra fino in fondo, con un unico movimento: in verità, è lei che si impala, scivolando su di me.

Tenendola per le natiche, la sollevo e poi la lascio ricadere sul membro che la riempie completamente,
Avanti e indietro, ci diamo uno all’altra, i nostri respiri affannosi che si condensano in bianche ed eteree nuvolette di vapore, che si confondono e si mischiano con la nebbia che ci avvolge.
Le sue parti intime sono calde, roventi, ed i suoi muscoli interni mi abbracciano il cazzo, masturbandomelo e carezzandomelo meravigliosamente.
Mentre con le dita della destra cerco il suo ano, per penetrarla anche da dietro, per riempirla tutta di me, un fruscio ci fa sobbalzare, interrompendo quella magica atmosfera nella quale ci stiamo crogiolando.

Immobili, il fiato grosso, tendiamo le orecchie per captare anche il più piccolo dei rumori, poiché la vista non ci può aiutare, ostacolata dal buio e dalla nebbia.
Ed eccolo, ancora: di nuovo un rumore, più vicino di prima.
Foglie calpestate, lo schiocco di un rametto secco che si spezza in due.
E poi un’altra volta, ora vicinissimo a noi.

La sento rabbrividire e le contrazioni della sua vagina mi strizzano ritmicamente il cazzo, ancora duro ed eccitato malgrado la paura.
Il cuore ci si ferma quando vediamo, nel buio, accanto a noi, due occhi che ci guardano e che sembrano brillare nell’oscurità.
Siamo paralizzati dalla paura, l’adrenalina che scorre a fiumi nel nostro sangue.

Il bastardino ci osserva, uggiolando e scodinzolando.
Avvicina il muso al terreno, annusa con lunghe soffiate, starnutisce, e poi torna a fissarci.

Torniamo a respirare, le sue gambe avvinte a me, le braccia serrate attorno al mio collo, il mio cazzo dentro di lei.
Ridiamo.
Una risata nervosa, per cancellare lo spavento che abbiamo provato.
E che vuole nascondere il timore che, visto che il cane non è sicuramente un randagio, ora arrivi anche il padrone.

Il cane continua a guardarci, e, secondo me, si sta divertendo come un matto.
La lingua che penzola da un lato, sembra sorridere a questi due buffi umani che, avvinghiati l’uno all’altra, sono mezzi morti di paura.

Un fischio lontano risuona nella notte.
Il padrone lo sta cercando.
Cazzo.
Lo sapevo.
Forse è meglio ricomporsi ed evitare di ritrovarsi in spiacevoli situazioni.
Il cane tende le orecchie e volta la testa in direzione di quel fischio.
Vai, bello.
Torna dal tuo padrone e alle sue carezze.
Ti prego.
Vai.

Il cane sembra non aver nemmeno sentito il richiamo.
Ma poi, dopo un’ultima occhiata verso di noi, quasi a salutarci, scompare nel buio e tra gli arbusti.
Il rumore delle sue zampe si allontana velocemente, fino a sparire nella notte.

Il silenzio torna ad avvolgerci.
Nuovamente soli.
Continuiamo a ridere, ricominciando a baciarci, sollevati per lo scampato pericolo.
La sua fica ha ripreso a scorrere veloce sul mio cazzo, fino al momento in cui lei è travolta dall’orgasmo, che alle mie orecchie, in tutta quella quiete nebbiosa, sembra un’esplosione pirotecnica: ansima e si morde la lingua per non gridare, mentre le sue unghie mi si conficcano nella pelle del collo.

Lentamente le faccio di nuovo appoggiare i piedi per terra.
Ho le gambe che mi tremano per lo sforzo e l’eccitazione.
Lei si appoggia a me, ancora affannata, e se non avessi il tronco dell’albero a sorreggermi, cadrei sotto il suo peso.
Non sono ancora venuto.
Senza preservativo, non me la sono sentita di sperare che lei prenda la pillola.
Almeno in questo, la ragione ha prevalso sull’istinto.
Ed ora ho i testicoli dolenti per lo sforzo che ho fatto.
Devo venire anch’io, e rapidamente.

Forse è telepatia.
Chissà.
La sua mano mi afferra e, sapientemente, inizia a masturbarmi.
La sento scorrere, scivolare, passare lieve lungo l’asta protesa.
Mi ritrae la pelle, fino in fondo.
Una, due, tre, quattro volte.
Ed io volo in paradiso, travolto da lunghi attimi di piacere sublime.

Gli schizzi di sperma, alla fine, si perdono sul terreno intriso d’umidità.

Ci siamo ricomposti alla meglio e, tenendoci per mano, usciamo dal parco del Grekohori.
Le nostre strade ora si divideranno, dopo essersi intersecate, avviluppate, aggrovigliate così intensamente per queste poche ore.
Un sorriso.
Una carezza.
Un ultimo sguardo.
Un bacio come addio.
Per non dimenticare.
La vedo sparire nella nebbia, quasi dissolversi in quest’ovatta spettrale che ci circonda, e che domani soltanto il sole riuscirà a dissolvere con il suo calore.

Se fosse stato un sogno, ora mi sveglierei, iniziando già a dimenticarne i particolari.
E poi, attimo dopo attimo, il sogno si sfalderebbe ed il ricordo si sbiadirebbe fino a sparire, cancellato per sempre, portato via dal tempo, come una foglia trasportata lontano dal vento.

Non la dimenticherò, invece.
Perché, anche se per poche ore, l’ho amata intensamente.
Mi volto e scompaio nella nebbia anch’io, rendendomi conto, forse solo in quell’istante, di quanto veramente fredda sia questa lunga notte invernale.

FINE


TRAMONTO A ZAKROS - CHARLIE


TRAMONTO A ZAKROS

I raggi del sole al tramonto coloravano di un tenue arancione i nostri corpi completamente nudi, quasi un pittore si fosse divertito a far scorrere il suo pennello sulla nostra pelle abbronzata.
L’ora del tramonto, qui a Zakros, è sempre stata un momento di pura magia, in cui l’aria stessa sembra cambiare colore di minuto in minuto, passando attraverso sfumature cromatiche impossibili a descriversi, e stemperandosi, dall’accecante bagliore del pieno giorno, prima nell’oro e arancio del sole calante, poi nell’impalpabile viola del crepuscolo, e quindi nel blu della notte incipiente.
Ed anche quel giorno l’incantata luce del tramonto si rifletteva sulla nostra pelle sudata, fremente e sensibile in quegli attimi di sesso e passione ormai incontrollabili.

L’avevamo incontrata così, per caso, quella stessa mattina, sulla spiaggia che si apre poco fuori il villaggio.
Sdraiata su un telo bianco, la donna prendeva il sole, immobile, forse assopita, il seno scoperto ed un minuscolo costumino giallo a coprirle deliziosamente le parti intime.
Anastasios ed io eravamo scesi al mare per un bagno, un rapido tuffo tra le onde per sfuggire al caldo opprimente di quella giornata, ma i nostri sguardi erano stati subito catturati da quella splendida e solitaria figura distesa sulla sabbia, così abbronzata ed affascinante da eccitarci in un solo battere di ciglia.

E così c’eravamo immersi nell’acqua fresca e cristallina, ma i nostri occhi erano stati inesorabilmente calamitati da quel corpo da favola, tanto che il bagno si era ridotto a qualche rapida bracciata a stile libero, desiderosi com’eravamo di fare la conoscenza di quella misteriosa e bellissima forestiera.

Una volta che eravamo usciti dall’acqua, non avevamo perciò perso tempo.
Con una banalissima scusa avevamo attaccato abilmente discorso con lei, e la donna si era subito dimostrata ben lieta di avere un pò di compagnia.
Iris, questo il suo nome, era certamente più grande di noi.
Non si chiede mai l’età ad una signora, e quindi, ovviamente, non lo avevamo fatto, ma la donna doveva essere abbondantemente oltre i quaranta, almeno una ventina d’anni in più di noi due.
Ma la sua età anagrafica, ai nostri sguardi, nulla poteva contare in quel momento.
Anzi.

Erotica e sensuale, e per nulla imbarazzata della sua quasi completa nudità, Iris aveva chiacchierato con noi per ore, e, insieme con lei, Anastasios ed io avevamo fatto più volte il bagno, scherzando e ridendo come fossimo già vecchi amici.
E più le ore di quella giornata trascorrevano, più noi ce la mangiavamo letteralmente con gli occhi.
E non poteva essere in altro modo.
La pelle liscia e resa scurissima dalla lunga esposizione al sole, senza la minima imperfezione, il seno abbondante e dai grandi capezzoli, il ventre ancora piatto ed elastico, le natiche flessuose, armoniose e senza smagliature, le gambe affusolate e che aspettavano solo di essere accarezzate: il corpo di Iris era una continua tentazione per i nostri giovanili ormoni in subbuglio.
Ed anche il viso della donna non era certo da meno: capelli castani e lunghi, sciolti sulle spalle, occhi grigi e maliziosi, denti bianchissimi e perfetti in una bocca dalle labbra generose e sensuali.
Una donna splendida, insomma, a cui gli anni donavano un fascino ancora maggiore ed intenso, rendendola incredibilmente sexy ed ambigua, attraente e misteriosa.

E poi, nel tardo pomeriggio, quell’invito improvviso e assolutamente inaspettato, a bere una bibita da lei, in quella casa poco lontano lungo la costa, casa che Iris aveva affittato per due settimane di vacanza: un invito che non poteva di certo essere frainteso, perché era più che lampante cosa la donna volesse da noi, vista l’atmosfera sempre più torrida ed infuocata che si era andata creando in quelle ore; sguardi espliciti, battute solo apparentemente casuali, un rapido sfiorarsi delle mani… era stato un crescendo continuo, fino a far giungere la tensione erotica fra noi a livelli di guardia.
E i desideri e le voglie più recondite di Iris coincidevano alla perfezione con quello a cui anche noi anelavamo, perché era da ore che Anastasios ed io, anche se convinti di non avere speranza alcuna, sognavamo di fare sesso con lei.

Avevamo lasciato dunque la spiaggia, in quell’ora in cui il sole ancora dardeggia incontrastato nel cielo, ma che, a breve, inizierà la sua discesa verso il tramonto incipiente.

La casa, ad un piano, in posizione solitaria e circondata da una fitta vegetazione mediterranea, si apriva, sul lato posteriore, opposto a quello affacciato sulla strada costiera, su una larga terrazza in porfido, arredata con un tavolo e alcune sedie di ferro battuto, e un largo ombrellone bianco circondato da poltroncine di vimini con cuscini colorati.
Tra le fronde degli alberi, mosse dalla brezza marina, e che, di fatto, schermavano e ombreggiavano la terrazza, s’intravedeva l’azzurro intenso dell’Egeo.
In un angolo, una rudimentale doccia, costituita da un semplice tubo di metallo ed una griglia di scarico nel pavimento, permetteva di lavarsi via la sabbia ed il sale di dosso al momento di entrare in casa.

Ed era proprio sotto il getto tiepido di quella doccia che Iris, non appena arrivati, si era subito diretta: Anastasios ed io eravamo rimasti a guardarla imbambolati, mentre lei si spogliava del pareo e del costume, come fosse completamente sola, mostrandoci il suo corpo interamente nudo, così eccitante e desiderabile alla nostra vista.
Iris sapeva bene di essere uno splendore, e si lasciava maliziosamente divorare dai nostri sguardi carichi di giovanile e straripante eccitazione.

L’acqua le scorreva sulla pelle, impreziosendola ed esaltandone la straordinaria perfezione, mentre le sue mani si accarezzavano voluttuosamente il corpo, senza un attimo di sosta: quella di Iris era un’esibizione di un erotismo che mi toglieva letteralmente il fiato, uno spettacolo che non era di certo una sorpresa, perchè la sua offerta di accompagnarla a casa era stata così esplicita da non lasciar alcun dubbio su quello che lei realmente aveva in mente di fare con noi.
Restammo così a guardarla per alcuni minuti, mentre il nostro desiderio di lei cresceva in modo esponenziale.

Finalmente, e con un sorriso che era al tempo stesso una promessa e un impegno, la donna ci invitò ad unirci a lei, sotto il getto dell’acqua, e a dare così inizio a quell’orgia di sesso che i nostri sensi reclamavano con sempre maggiore forza.

Anastasios ed io c’eravamo subito sfilati i costumi, accostandoci quindi a lei e mostrandole le nostre prepotenti erezioni, stringendola tra i nostri corpi frementi nello stretto spazio della doccia.
Le avevamo spalmato il bagnoschiuma sulla serica pelle, sfiorandola ed accarezzandola a quattro mani, esplorando le più nascoste e sensibili zone del suo corpo, e facendo crescere la sua e la nostra eccitazione sempre di più, istante dopo istante, carezza dopo carezza.
Le mani di Iris, dalle unghie lunghe e laccate di un rosso scuro, avevano preso a scorrere impazienti sulle nostre aste turgide, che quasi sembravano sfidarla ad andare oltre: un cazzo stretto in ogni mano, Iris si abbandonava ad occhi chiusi al piacere, saggiando la durezza dei nostri membri, scoprendo le cappelle bollenti, palpando i testicoli rigonfi…

Iris si era rivelata una donna così diabolicamente esperta che le sue mani, con pochi ed abili movimenti, ci avevano condotto pericolosamente vicino all’orgasmo, anche perché le sue carezze iniziali si erano presto trasformate in due seghe semplicemente divine.
Giunti al limite massimo di sopportazione, e non volendo in alcun modo venirle tra le dita, Anastasios aveva preso l’iniziativa chiudendo l’acqua della doccia, mentre io mi affrettavo a stendere, sul pavimento della terrazza, una larga stuoia che avevo visto arrotolata vicino al tavolo, e sulla quale, con Iris, c’eravamo immediatamente andati a sdraiare tutti e tre.

Stretta fra noi, i corpi bagnati ed incredibilmente eccitati, Iris divenne subito preda delle nostre bocche e delle nostre mani: prendemmo a baciarla, a leccare ed a mordere con delicatezza i suoi capezzoli, a sfiorare in punta di dita la sua pelle e a stordire i nostri sensi con quel contatto magico, a strofinare, lungo l’esterno delle sue cosce, i nostri cazzi mai così duri ed eretti.
Iris gemeva, travolta da quell’assalto appassionato, passandoci le mani tra i capelli e carezzando le nostre schiene, le sue unghie quasi a graffiarci, mai sazia di quelle nostre erotiche attenzioni.
Insieme con Anastasios le leccammo la fica, bevendo i suoi umori ed inebriandoci del suo fantastico profumo.
Ma l’esaltazione di quei momenti non poteva permetterci di prolungare troppo a lungo quel gioco erotico con il corpo di Iris: Anastasios ed io volevamo entrare in lei, affondare i nostri cazzi in quella carne rovente, ed anche la donna, a quel punto, non chiedeva altro che di essere scopata.

Iris si alzò rapidamente dalla stuoia, divincolandosi a fatica e controvoglia dalle nostre bocche, e sparì dentro casa, per tornare da noi però quasi immediatamente, tenendo nel palmo di una mano due profilattici: subito
s’inginocchiò tra noi, aprì una delle confezioni e, tenendo il preservativo in mano, piegò la testa, ingoiando per intero il cazzo del mio amico, stringendolo e succhiandolo con le labbra, stimolandolo favolosamente davanti ai miei occhi.
A quell’improvviso contatto, Anastasios aveva preso a sospirare, impazzito dal desiderio, abbracciato da quella bocca così fantastica e straordinaria.

Il pompino di Iris s’interruppe nel momento in cui la sua mano applicò il profilattico sull’asta palpitante che aveva davanti: poi, salendo a cavalcioni su Anastasios, la donna si fece scivolare in corpo quel cazzo in piena erezione, iniziando a muovere sinuosamente il bacino con movimenti lenti e circolari, e impalandosi fino in fondo.
Le gambe che mi tremavano per l’eccitazione, in piedi di fronte a lei, le accostai il cazzo alle labbra: Iris prontamente le socchiuse e se lo fece sparire in bocca, riservandomi lo stesso delizioso trattamento fatto poco prima al mio amico.

Sentivo la sua lingua scivolarmi sulla cappella, i denti sfiorarla, le labbra abbracciarmi l’asta rigonfia, le sue dita stringermi i testicoli: brividi d’erotismo dilagavano in me, e la mia eccitazione era ancor più sollecitata dai mugolii di piacere della donna, soffocati dal mio cazzo che le riempiva interamente la bocca.
Poi, com’era già accaduto ad Anastasios, le labbra della donna mi abbandonarono, e quelle erotiche dita delle sue mani infilarono abilmente un profilattico anche sul mio cazzo.

Mentre il mio amico continuava a scoparla, tenendola per i fianchi e guidandola nella penetrazione, sollevandola e facendola ridiscendere sul cazzo che la riempiva, io mi appoggiai alla schiena di Iris, facendo aderire i miei pettorali alla sua pelle e, contemporaneamente, abbracciandola e stringendole i seni nelle mie mani, sovrapponendole di fatto alle sue che già si stavano pizzicando i capezzoli, così eccezionalmente duri e sporgenti.
Poi, spingendola gentilmente verso Anastasios, l’afferrai per le natiche, allargandole, ed esponendo alla mia vista l’orifizio posteriore della donna.

Iris era scesa con il busto sul petto di Anastasios e le loro bocche si erano unite in un bacio senza respiro.
Davanti ai miei occhi, il culo di Iris era un invito terribilmente irresistibile: v’infilai un dito, umettandolo prima negli abbondanti umori che fluivano incessanti dalla fica della donna, trovando le sue carni già pronte alla penetrazione.
Con la mente in fiamme, travolto da un desiderio quasi animale, accostai la punta del cazzo a quel buco che doveva regalarmi il primo orgasmo di quel pomeriggio, spinsi con forza, privo di qualsiasi riguardo, ed entrai profondamente in lei, senza incontrare ostacolo alcuno, segno inequivocabile di come quella strada del corpo di Iris, in passato, non fosse di certo rimasta inviolata.

Anastasios la scopava ed io l’inculavo, i due cazzi che si sfioravano nel suo corpo, mentre le urla dell’orgasmo di Iris dilagavano per tutta la terrazza, nel momento in cui i raggi del sole al tramonto iniziavano a colorare i nostri corpi sudati di un tenue arancione.

Quando a Zakros scese la notte, furono i raggi della luna ad illuminare con il loro chiarore il corpo di Iris, ad accarezzare con la loro pallida luce la pelle di quella splendida dea del sesso.

FINE


CHARLIE (soft)

Ogni mattina, quando mi rado, sulla mensola dello specchio, tra spazzolino e dentifricio, tra pennello e crema da barba, vedo la bottiglietta del tuo profumo.
Quella bottiglietta che avevo comprato tanti anni fa, quando stavamo ancora insieme, quando l’amore ci sembrava eterno e indistruttibile, quando tu eri il mio mondo, ed io il tuo.
L’avevo acquistata per sentire il tuo profumo, sempre, anche quando non c’eri, anche quando eravamo lontani.

Mi ricordo che l’aprivo, svitavo questo tappo dorato, e annusavo il dolce aroma, l’incantevole fragranza, e subito eri vicina a me, anche se non fisicamente, anche se fra noi c’erano mille chilometri.
Ma mentalmente e spiritualmente eri accanto a me.
Era come se all’improvviso ti fossi materializzata al mio fianco, portata da un colpo di vento primaverile, tiepido e profumato di buono, con il tuo sorriso ed il tuo amore per me.
E con quel tuo profumo che mi ubriacava.

Avevamo diciotto anni allora, e tu eri il mio primo, grande, unico amore.
Eri la ragazza per la quale avevo perso la testa, alla quale avevo donato il mio giovane cuore: avevi stravolto la mia vita, i miei ritmi, le mie abitudini.
Eri quel raggio di sole che spunta tra le nuvole dopo un temporale.
Eri la goccia di pioggia che disseta la terra arida e asciutta.
Eri… eri tutto, assolutamente tutto per me.
Mi ero innamorato di te alla follia, conquistato dalla tua bellezza e incantato dalla tua dolcezza.
Mi avevi affascinato, a tal punto da sentirmi da te stregato.
E poi c’era il tuo profumo.

Dolce e accattivante, intenso ma delicato, profumo di bellezza e di gioventù, profumo di vita.
Profumo di te.
Quando te lo mettevi, prima di uscire, ti guardavo ammaliato: una goccia dietro un orecchio, un’altra goccia dietro l’altro orecchio, e poi quell’ultima goccia (ma non credo fosse una sola) che mettevi all’attaccatura dei seni, a completare un tuo rito personale, per solleticare meravigliosamente il mio naso, e per stordire la mia anima impazzita.
Non avevo mai capito come quelle poche gocce riuscissero a profumare tutto il tuo corpo, come ogni centimetro della tua pelle ne fosse magicamente pervaso.
Quando, con la mia bocca, esploravo il tuo corpo ormai quasi da donna, ma ancora da ragazza, o forse da ragazza diventata donna, in un affannosa ed inesperta ricerca di darti il piacere, di tramutare la mia imperizia in abilità, di sconfiggere il timore di deluderti, era allora, proprio in quegli istanti, che io sentivo dovunque il tuo profumo.

Ti baciavo i seni, ti sfioravo il ventre, ti lambivo le gambe.
E sempre ero avvolto da quel magico profumo, come se quelle poche gocce si fossero moltiplicate all’infinito, come se ogni fibra del tuo corpo avesse ricevuto la dolce carezza di una di quelle perle profumate.
Nei momenti più intensi e più teneri, in quegli istanti che solo a diciotto anni riesci a cogliere così vivi ed eterni. quando ti penetravo esitante, quando mi perdevo nella tua dolce intimità, mi ritrovavo a pensare che quel profumo non venisse da quella piccola bottiglietta (“Charlie”, così si chiamava, lo leggo ora su quel ricordo che ho in mano), ma fosse il tuo stesso profumo, la dolce fragranza della tua pelle, come se per qualche strano miracolo tu fossi nata profumata, lieve ed eterea, avvolta da una nuvola di straordinario aroma.

E quando ballavamo stretti, uniti come fossimo una sola cosa, in quella discoteca sulla spiaggia, il tuo profumo mi catturava come fosse una rete, e si fissava sulla mia maglietta, o sulla mia camicia.
E la sera, a casa, da solo, quando mi spogliavo, sentivo che ” Charlie” era penetrato sotto gli abiti, aveva profumato anche la mia pelle, mi aveva reso simile a te.
Una parte di te era divenuta parte di me, in una metamorfosi impossibile, in una trasformazione irreale.
Ed era amore.
Questo era l’amore.

Dopo la doccia, cercavo ancora il tuo profumo: forse non c’era più, forse l’acqua l’aveva portato via, ma io continuavo a percepirlo, a sospettarlo, o mi illudevo soltanto che ancora ci fosse, e questo mi bastava.

Come ” Ti amo “, che Tozzi cantava in quell’estate lontana, e che l’estate dopo nessuno più ballava, così gli amori giovanili, i primi amori, esplodono intensi e dirompenti, per poi finire senza un vero perchè, senza una vera ragione.
La loro fine è scritta nel loro inizio: troppo belli per durare, troppo totali per non bruciarsi rapidamente come una pagina di giornale.
Ma il ricordo di quel tuo profumo mi ha consolato in tutti questi anni, mi ha tormentato a volte, mi ha fatto rabbia in altri momenti, mi ha fatto piangere i primi tempi senza di te.

Ecco, accosto il naso alla bottiglietta e annuso, una volta di più, il profumo del vecchio ” Charlie “.
Forse anche i profumi, come gli amori finiti, come gli amori che la vita ha portato via, dopo trent’anni non hanno più la stessa intensità.
Forse, come l’onda del mare che cancella le orme e i disegni fatti dai bambini sulla sabbia, il tempo modifica i nostri ricordi, trasforma l’immagine che ho ancora di te e che conservo gelosamente nella mia mente e nel mio olfatto.
Ma il tempo, inesorabile nel suo trascorrere, cambia le nostre vite e i nostri corpi.
Figuriamoci un profumo…

Non so.
Ma oggi mi appare diverso, meno dolce e un pò più amaro.
Ma forse è solo la mia vita che è meno dolce e molto più amara.
Forse non è cambiato ” Charlie “, ma ad essere cambiata è la mia percezione di te, fino ad annebbiarsi in quel lontano passato.

Vorrei vivere nella fantascienza.
Vorrei vivere in un futuro lontano, dove tutto sarà possibile.
E in questo futuro, mi sarebbe possibile tornare indietro nel tempo, magari anche solo per pochi minuti, e, con l’esperienza di adesso, dirti che il nostro amore non deve finire, che deve restare eterno, che quella canzone che balliamo non passerà mai di moda, che in quel mare le onde non cancellano più i disegni fatti dai bambini sulla sabbia.
E vorrei tornare indietro nel tempo, e mi sarebbe sufficiente anche un solo istante, per sentire una volta di più il tuo profumo, per respirare un’ultima volta il nostro vero e indimenticabile ” Charlie “.

FINE


VOUNARIA - IL CIMITERO (comico erotico)


Il bagno è sorprendentemente pulito.

Di sicuro molto di più di quanto ci si possa aspettare dai bagni dell’aeroporto di Atene, il Venizelos.
Il pavimento lucido, i sanitari puliti di fresco e, nell’aria, un tenue profumo di limone, nulla a che vedere con l’odore pungente ed aggressivo dei detergenti industriali.
Siamo rimasti piacevolmente sorpresi da tutto questo.

Il volo da Dublino è arrivato in perfetto orario.
I passeggeri sono sbarcati in modo tranquillo e ordinato, e quindi, anche noi dell’equipaggio, terminate le ultime e consuete formalità, ci siamo avviati verso l’uscita a noi riservata.

E lui era lì.
Ad aspettarmi.
Appena l’ho visto, ho capito che lo avrei avuto.
Come, sull’aereo, durante il volo, avevo sperato e avevo desiderato che accadesse.

Lui era seduto in un posto lungo il corridoio, ed ogni volta che io mi trovavo a passare, portando il pranzo o il caffè, mi aveva sorriso, gentile ed educato, facendo perdere colpi al mio cuore.
Dire che è bello è dire poco.
Vestito blu, camicia azzurra, cravatta rosso mattone, a righine bianche: l’eleganza fatta persona.
Sulla quarantina, capelli biondi e un po’ lunghi, con una spruzzata di grigio sulle tempie, un fisico certamente atletico, attorno al metro e novanta, mani larghe e dalle lunghe dita eleganti, unghie corte e curatissime: tutte noi hostess avevamo occhi solo per lui.
Ed il suo sguardo ci aveva seguito, mentre eravamo impegnate nei nostri lavori; uno sguardo divertito, ma profondo ed intenso, ironico e sensuale.
I suoi occhi, incredibilmente verdi, sembravano sfiorarti ed accarezzarti con un tocco leggero e impalpabile.

E, mentre l’Europa scorreva sotto di noi, avevo notato con estremo piacere che lui guardava soprattutto me.
Era evidente, ogni istante di più, che gli piacevo, che ero io l’hostess che più l’intrigava.
Forse i miei lunghi capelli neri, o forse le mie gambe slanciate.
Qualcosa l’attirava, lo spingeva a seguirmi con occhiate sempre più insistenti ed esplicite.
Mi capita spesso di essere oggetto dell’attenzione di qualcuno: sono conscia di essere una splendida ragazza di ventisei anni, e gli occhi degli uomini raramente non si soffermano su di me.

Ma, il più delle volte, la cosa quasi mi infastidisce o, nella migliore delle ipotesi, mi lascia totalmente indifferente.
Ma oggi no.
Mi sono sentita lusingata dalle sue attenzioni, irretita dal suo sguardo, eccitata dal suo manifesto interesse.

Quando è sceso dall’aereo, passandomi accanto, mi ha ringraziato con un sorriso smagliante, dicendomi che se tutti i voli fossero così piacevoli, viaggerebbe in aereo molto più spesso.
Poi è sparito nel tunnel che conduce al terminal.

Quando, mezz’ora più tardi, sono uscita dalla porta riservata al personale di volo, lui era lì.
Con lo stesso sorriso di poco prima.

Abbiamo preso un caffè al bar dell’aeroporto, parlando poco, ma riempiendoci gli occhi uno dell’altra.
Sentivamo di volere entrambi la stessa cosa, e le parole sembravano inutili, superflue, insignificanti.
Lo volevo.
E lui voleva me.
E così…

Mi sono diretta verso i bagni femminili, lui a qualche metro di distanza da me.
Ho spinto la porta e, con una rapida occhiata, ho controllato la zona dei lavabi, dove una donna non più giovanissima si stava rifacendo il trucco.
Impazienti, abbiamo atteso che finisse e che finalmente uscisse, lasciando il bagno vuoto, deserto e silenzioso..

Rapidamente lui ed io siamo entrati, chiudendoci nell’ultimo stanzino in fondo, sulla destra.
Il bagno che, come dicevo, abbiamo trovato sorprendentemente pulito.
Nello spazio ristretto, l’ho sentito girare il paletto di chiusura della porta e, un attimo dopo, la mia bocca era incollata alla sua.

Le lingue avviluppate, le labbra strette fra saliva e sospiri, sento le sue mani sbottonarmi la camicetta, spostare il reggiseno, sfiorare le tette, pizzicare i capezzoli fino a farli sporgere per l’eccitazione.
Anche le mie mani sono impazienti, vogliose di toccarlo, di stringere la sua carne.
Abilmente, gli faccio scivolare i pantaloni e i boxer attorno alle caviglie, liberando la sua erezione.
Mi manca il fiato per l’erotismo senza confini di questi attimi.
Gli faccio scivolare le mani sul cazzo, carezzandolo, palpandogli i testicoli, accennando solamente i movimenti di una lentissima sega.
Lui sussulta al contatto con le mie dita, e mi strizza le tette con maggior vigore.
Una scarica di piacere dilaga impetuosa nel mio cervello.

Continuiamo così per qualche minuto, mentre alcune donne entrano ed escono dai bagni accanto a quello in cui ci troviamo, controllando i nostri respiri ed i nostri gemiti, che a stento riusciamo a trattenere, e rilassandoci soltanto quando sentiamo che ai lavabi non c’è più nessuno.

Lui si mette una mano nella tasca interna della giacca (so che anche lui vorrebbe essere nudo, in una posizione più comoda, e avere un contatto totale e straordinario con la mia pelle accaldata) ed estrae un profilattico: me lo porge, l’urgenza nei suoi meravigliosi e profondi occhi.

Con mani malferme apro la confezione, mi inginocchio, appoggio il preservativo sulla cappella scoperta e lo srotolo accuratamente, saggiando di nuovo l’eccezionale turgore di quel membro pulsante.
Non resisto alla tentazione e, anche se per pochi secondi, me lo infilo in bocca, succhiandolo con forza, il gusto del lattice sulle labbra.

Ma lui gentilmente mi rialza, mi guarda negli occhi, e mi fa voltare.
Le mie mani si appoggiano alle bianche piastrelle del muro: allargo le gambe ed inarco la schiena, esponendo le mie natiche, protendendole verso di lui.
Una semplice e veloce scopata sarebbe troppo poco: lui vuole di più, e lo stesso desidero anch’io.

Ora è lui ad inginocchiarsi dietro di me: mi solleva la gonna sui fianchi e mi fa scivolare le mutandine lungo le gambe, sollevandomi un piede alla volta e sfilandomele via.
Ho il sedere esposto al suo sguardo e le mie gambe, slanciate dai tacchi alti delle scarpe, sono certa che rappresentino uno spettacolo sublime per i suoi occhi.
Mi inarco ancora di più, provocandolo e aspettando le sue mosse.
Ho la fica inondata dal piacere, e sento come i fluidi della mia eccitazione mi abbiano inumidito l’interno delle cosce.

Le sue mani sui miei fianchi, la sua bocca sui miei glutei.
Sento la sua lingua scendere nell’incavo tra le natiche, alla ricerca dell’orifizio che sarà, a breve, violato.
Sono eccitata, mentalmente e fisicamente, come di rado mi accade.
Stacco una mano dal muro, spostando tutto il mio peso sull’altra, portandola alla fica, e iniziando a titillarmi il clitoride.
Nel frattempo, lui mi ha messo le mani sulle natiche, allargandole il più possibile, e la sua lingua passa, avanti e indietro, sul mio ano impaziente, insalivandolo e umettandolo, facendo rilassare i tessuti e predisponendoli alla penetrazione.
Sono momenti unici, in cui il piacere mi si scioglie nell’anima, ed i brividi mi risalgono la schiena, facendomi rizzare i capelli sulla nuca.

Alla lingua si è aggiunto un dito, che si insinua delicato, aprendo e dilatando.
I muscoli si rilasciano, il desiderio si acuisce: quel dito magico mi esplora, mentre la mia mano si muove lenta, seguendo il ritmo della penetrazione, sul clitoride sporgente.

Finalmente lui si rialza.
Mi tendo, inarcando la schiena ed esponendo il culo ancora di più, sicuramente per aggiungere provocazione a provocazione, ma anche per pregarlo di porre fine a quel meraviglioso supplizio.
Le sue mani mi prendono per i fianchi, con forza, e la punta del suo cazzo, coperta dal liscio e scorrevole preservativo, si appoggia un attimo al mio orifizio.
Aumento la pressione sul clitoride e scosse di piacere dilagano per ogni centimetro del mio corpo.
La sola idea di essere chiusa in un bagno pubblico con uno sconosciuto che sta per sodomizzarmi potrebbe condurmi ad un orgasmo di intensità sconosciuta.
Cerco di calmare i miei sensi, di frenare la libidine che divora la mia pelle e la mia mente.

Spinge.
E’ delicato ed attento, ed io intuisco la sua straordinaria capacità nell’inculare una donna.
Spinge di nuovo.
E la cappella è dentro, dilatando i tessuti, inesorabilmente.
Si ferma, e attende.
Ha sentito quel mio unico gemito soffocato, un pò di dolore e molto di piacere.
Aspetta che il mio corpo accetti l’intrusione: la mia mente l’ha già accettata da tempo, desiderandola spasmodicamente.

Quell’accenno di fastidio svanisce, lasciandomi un languore profondo e indistinto, mentre la mia mano vola dal clitoride alla fica, esplorandola con le dita.
Lo voglio.
Tutto. In me. Nel mio culo. E voglio godere con lui, senza alcun ritegno.

Ora sono io che spingo all’indietro, nella sua direzione, impalandomi, centimetro dopo centimetro, sul quel meraviglioso cazzo duro che mi sta riempiendo.
Un primo orgasmo mi squassa letteralmente, accompagnato da ondate di piacere così intenso che vorrei urlare con tutto il fiato che ho in gola.
Mi trattengo, sapendo di non potermelo permettere, visto il luogo in cui ci troviamo.

Anche lui vuole godere, e mi incula poderosamente: sa che non provo più dolore, ed il suo cazzo scorre veloce, dentro e fuori, tutta l’asta nelle mie viscere, le sue palle che urtano ritmicamente le mie natiche.
Mentre il secondo orgasmo mi porta in paradiso, lo sento venire, con sospiri soffocati, ed immagino tutto lo sperma che il preservativo trattiene, evitando che mi allaghi il culo ora oscenamente aperto…

Come fossimo due ladri, sgusciamo fuori dai bagni femminili.
Sulla porta lui mi sorride, mi bacia delicatamente su una guancia e va via, scomparendo tra la folla dell’aeroporto.

Solo in quel momento mi accorgo di non conoscere nemmeno il suo nome.
E che lui ignora il mio.
Ma, in definitiva, forse è meglio così.
Negli anni tutto questo diventerà solamente un ricordo indistinto.
Ma resterà un ricordo meraviglioso, un attimo della mia vita, unico ed irripetibile.

FINE



IL CIMITERO (comico-erotico)

Aveva atteso quel posto di lavoro per più di sei mesi.
Ed ora era finalmente suo.

Yorgos passeggiava per i tranquilli vialetti del cimitero, spingendo una carriola con una scopa ed un rastrello poggiati sopra, ramazzando qua e là le foglie cadute, e familiarizzando con le tombe e con i silenziosi residenti delle stesse.
Molti degli ospiti del cimitero li aveva conosciuti in vita, essendo il villaggio abbastanza piccolo, ed era quasi impossibile non venire a sapere della morte di qualcuno.
Altri, invece, non li ricordava, essendo morti o quando lui era troppo piccolo, o prima che lui nascesse, ventisette anni prima.

Lo avevano assunto come custode cimiteriale da tre giorni.
Quando il sindaco l’aveva chiamato per comunicargli la buona notizia, Yorgos era esploso in incontenibili manifestazioni di gioia.
Aveva baciato il sindaco ed il segretario comunale, che si erano ritratti un pò schifati dalla sua salivosa allegria, e poi era corso alla taverna a spargere la buona novella agli sfaccendati che lì soggiornavano notte e giorno.
Era felice come un bambino a Natale, anche perchè aveva fregato il posto a quell’antipatico di Panaiotis, il figlio della Titta, una lontana (e stronza) cugina di sua madre.

Yorgos e Panaiotis erano entrambi invalidi civili.
Ma mentre Panaiotis aveva un’invalidità del cinquanta per cento, dovuta ad una gamba più corta dell’altra, ricordo di quando era finito sotto il trattore di famiglia, Yorgos era invalido all’ottanta per cento, e di testa per di più.
Lui non era stato vittima di incidenti.
Non era finito sotto un trattore, non era caduto dal tetto del fienile, e non si era tagliato nulla con la motosega.
Yorgos era nato così, destinato a restare un bambino in un corpo da adulto.
Non che fosse completamente deficiente, questo no, ma sicuramente la palma di scemo del villaggio non gliela aveva mai insidiata nessuno.

Insomma, Yorgos era, a tutti gli effetti, il nuovo custode del cimitero, e coscienziosamente si aggirava da tre giorni fra le lapidi, per farsi conoscere dagli ospiti di quel silenzioso e sacro luogo.

Passava da una lapide all’altra, leggendo i nomi dei defunti (e dimenticandoli subito dopo).
Delfina Koukullis, morta nel 1971.
Questa doveva essere la nonna di Vassili, il fornaio.
Miron Verdulakis, morto nel 1999.
Lui se lo ricordava bene, perchè era stato il medico del villaggio per tantissimi anni, e sicuramente aveva contribuito ad accrescere, e anche di molto, la popolazione del cimitero.
E poi ancora Christos, Despina ed il piccolo Tsambiko, morto di polmonite anni prima, Caterina, Tassos, Andreas e suo zio Nikos (ciao zio)…
Tutto il villaggio che non c’era più passava davanti ai suoi occhi, accendendo in lui ricordi più o meno nitidi.
E poi c’era la tomba di Leonidas Arkiatis.
La più bella e la più grande di tutte.
La tomba per eccellenza.
Una larga spianata di marmo chiaro, circondata da una bassissima siepe di sempreverdi, e una grande lapide con inciso il nome e le date di nascita e di morte dell’illustre residente.
E poi, la fotografia.
Ah… la fotografia !!
Un bell’uomo, sorridente e contento, gli occhi dallo sguardo profondo e sereno.
A Yorgos sembrava impossibile che un uomo così fosse morto.
Esattamente come tutti gli altri.
Proprio non se ne capacitava.

Leonidas Arkiatis era stato il signore del villaggio, ossequiato ed omaggiato da tutti.
Era stato un signore, però, democratico e benvoluto: sempre gentile e sorridente, aveva sempre una buona parola per tutti, non facendo mai pesare a nessuno la differente condizione sociale.
Ricco sfondato, si godeva la vita nel suo grande palazzo, fra pranzi luculliani e scopate memorabili.
Dalla città si portava in continuazione sventole sempre diverse, ma che facevano, però, sempre la stessa fine: a letto, a sollazzare il gaudente signore.
Celebre era rimasta, negli annali del villaggio, la sera in cui il buon Leonidas era stato visto nei giardini del suo palazzo mentre, vestito da Batman, inseguiva due fanciulle completamente nude, le quali, ridendo, lo sfidavano ad acchiapparle.
Le gole profonde del villaggio dicevano che Batman le aveva ben presto raggiunte, per poi inchiappettarsele sul prato, coperto solo dello svolazzante mantello…

Per rispetto, Yorgos passò la scopa sulla tomba, eliminando un paio di foglie, e si segnò.

Aveva voluto bene a Leonidas Arkiatis.
Quando Yorgos era piccolo, ogni volta che lo incontravano, il buon Leonidas pagava sempre il gelato ai ragazzini che gli si affollavano intorno.
E questo Yorgos non lo avrebbe mai dimenticato.

Vicino al cancello d’ingresso del cimitero vi era la piccola abitazione del custode.
Yorgos, che viveva da solo, l’aveva trovata bellissima ed accogliente, anche se in realtà si trattava di una catapecchia vecchia, puzzolente e sommariamente restaurata.
Ma lui, uomo semplice e senza pretese, aveva ringraziato la fortuna, non solo per il lavoro, ma anche per quella modesta abitazione.

Era l’una di notte, quando Yorgos fu svegliato da schiamazzi e grida.
Gettò i piedi giù dal letto ed aprì cauto la porta d’ingresso.
Il cimitero era avvolto dal buio, ma una pallida luce s’intravedeva, in lontananza, tra le tombe.
A torso nudo e con solo i pantaloni del pigiama indosso, il nuovo custode si avviò titubante verso quel chiarore.
Quando fu ad una ventina di metri, Yorgos si accorse che la luce proveniva da una lampada a gas appoggiata proprio sulla tomba di Leonidas Arkiatis.
Morto di paura e con il fiato corto, avanzò ancora, nascondendosi dietro una siepe di alloro.
Quel che vide lo lasciò letteralmente esterrefatto.

Un ragazzo ed una ragazza, completamente nudi, si accoppiavano sul marmo della tomba, quasi si trovassero su un ampio e comodo letto matrimoniale.
Lui la montava da dietro, alla pecorina, tenendola per i fianchi e strappandole lunghi gemiti di piacere.
Una seconda ragazza, anch’essa completamente nuda, si era seduta a cavallo della lapide del povero Leonidas, e si strofinava la fica su di essa, guardando i due amanti, e godendo senza alcun ritegno.
Yorgos, paonazzo, notò che una coscia della ragazza si strusciava sulla foto sorridente dell’esimio abitante di quella tomba.
Yorgos rimase immobile a guardare quell’orgia, il cazzo duro come un cetriolo dell’orto di sua madre.

Quando la ragazza seduta sulla lapide, evidentemente stanca di fare da spettatrice, scese e si mise a spompinare il ragazzo, che nel frattempo aveva mollato l’altra, Yorgos venne fragorosamente nei pantaloni del pigiama, muggendo come un toro e nitrendo come un cavallo con il culo arrossato.
I suoi versi disumani furono immancabilmente sentiti ed i tre, terrorizzati da quel baccano, fuggirono verso il muro di cinta posteriore del cimitero, portandosi in mano i vestiti e le scarpe.

Yorgos, stordito dall’accaduto, il pigiama imbrattato dal suo esplosivo piacere, tornò in casa.
E quella notte non riuscì più a chiudere occhio.

- Signor sindaco, le assicuro che questi maiali stavano…- .
- Sì, Yorgos, ho capito. Scopavano, lo so. Fottevano alla grande. Succede… soprattutto da quando hanno aperto quella discoteca, giù, verso il mare.
Si ubriacano e, tornando a casa, non trovano di meglio che entrare al cimitero per farsi una bella trombata. Non è mica una novità…- .
- Ecco… ma io… quando questi si incul… ehm… insomma… quando si … che devo fare ? – .
- Cacciali. Mandali via. Urla un pò di parolacce e vedrai come se la daranno a gambe. Fai un gran casino, e tutto si sistemerà per il meglio -.

Yorgos stava in piedi di fronte alla scrivania del sindaco.
Entrando, il primo cittadino del villaggio (che poi era un suo parente, sia pure alla lontana) gli aveva detto di non avere molto tempo da dedicargli, perchè stava esaminando. al computer, il nuovo piano regolatore della zona.
Ora, in effetti, sullo schermo si vedeva una mappa del paese, ma prima, quando si era accostato alla scrivania, a Yorgos era parso di intravedere che vi fosse la fotografia di una biondona con le poppe di fuori.
Ma, non intendendosi nel modo più assoluto di computer, pensò di essersi sbagliato.

- Piuttosto, Yorgos, che facevano esattamente quei tre ? – .
Quando arrivò a raccontare del pompino, il sindaco, rosso in volto, lo liquidò sbrigativamente.
Yorgos era sicuro che il brav’uomo fosse rimasto schifato da quanto da lui descritto: uscì dal comune del villaggio e tornò al cimitero, mentre il sindaco riprendeva a spararsi la sega, davanti alla foto della zoccola con le zinne di fuori, che aveva dovuto interrompere all’arrivo del deficiente.

Quel pomeriggio, mentre puliva e lucidava con scrupolo la tomba di Leonidas Arkiatis (cavoli, uno schizzo di sborra aveva coperto l’anno di morte, e la plastica sulla fotografia era tutta opaca, sicuramente macchiata dalla coscia umida della ragazza che vi si era strofinata come una gatta in calore), Yorgos studiò, per quanto le sue capacità intellettive glielo permettessero, un piano d’azione per la notte seguente.
Il sindaco aveva detto di cacciarli (ma che gli fregava al sindaco di conoscere i più sordidi dettagli di quello che era successo ? Lì proprio non ci arrivava a capirlo…) e lui li avrebbe cacciati, sicuro come il fatto che era il nuovo custode del cimitero.
Lucidò dunque la fotografia del signor Leonidas e… strano, ma… si ricordava che quel viso sorridesse nella foto… ora invece sembrava serio… quasi seccato.
Yorgos pensò che il pover’uomo fosse rimasto sconvolto da quello che era accaduto sopra di lui: di certo la sua pace eterna disturbata da quel finocchio (beh… mica tanto poi) e da quelle due zoccolette assatanate…
Ma quella notte avrebbe agito, e restituito il sorriso a quella foto.
Si sarebbe tramutato in una furia, se fosse stato necessario, ma il signor Leonidas avrebbe riposato in tutta tranquillità, cazzo !!

Si appostò poco dopo mezzanotte, dietro ad un pino, ad una quindicina di metri dalla tomba.
I grilli frinivano nell’afa notturna, ed un gufo lanciava il suo grido nella notte.
Yorgos aveva una paura fottuta, e scoreggiava in continuazione, nel disperato tentativo di alleggerire la tremenda pressione che gli attanagliava le viscere.
Per dirla tutta, si sentiva sull’orlo di cacarsi sotto.

Dopo più di un’ora di quel supplizio, quando già pensava che quella notte nulla sarebbe successo, li sentì finalmente arrivare.
Questa volta erano in quattro. due bastardelli sui vent’anni e due smandrappate poco più che diciottenni.
Arrivati alla tomba dell’Arkiatis, i quattro accesero una lampada da campeggio, si spogliarono rapidamente, ed iniziarono a darci sotto alla grande.
Una ragazza si era seduta su un cazzo di proporzioni giganti (ammirato, Yorgos era ammirato di quell’attrezzo poderoso…), mentre l’altra aveva spalancato le gambe e si faceva leccare la fica dal secondo montone.
Poi anche lei si era impalata sull’uccello del suo cavaliere (altro bastone di notevolissime dimensioni…), iniziando una cavalcata frenetica e rumorosa.
I maschi sdraiati, le due donne sedute sui loro cazzi, l’orgia notturna ebbe inizio, mentre Yorgos, gli occhi di fuori, continuava a scoreggiare con sempre maggiore intensità.

Quando le due donne presero a baciarsi tra di loro e ad accarezzarsi le tette a vicenda, Yorgos si accorse che stava per schizzare.
Ma, questa volta, non voleva spaventare i maialoni e le porcone con i suoi barriti di piacere.
Voleva che si cacassero sotto dalla paura (cosa che, anche se in minima parte, lui aveva già iniziato a fare…) per le urla e le grida, come il sindaco gli aveva consigliato di fare.
Si fece forza e cominciò a ragliare a pieni polmoni :

” Troie… brutti froci… mignottacce… schifose… terroristi… senzadio… maiali… andate via… andate a farvi fottere…vaffanculo… stronzi… teste di cazzo…” .

A corto d’insulti, e con il fiato grosso, Yorgos concluse con un rauco “ figli di troie ”.

Sotto quel diluvio, i quattro, sghignazzando e facendo sonore pernacchie, scapparono ridendo nella notte.

Ancora agitato, e tutto sudato per quanto aveva gridato (nonché per lo sforzo sovrumano di non ammollare l’intero smottamento intestinale che stava per travolgerlo…), Yorgos si avvicinò alla tomba dell’Arkiatis, per controllare che nulla fosse fuori posto, dopo la ginnastica fatta dai quattro figli di mignotta.
Bastardi schifosi.
Puttane incallite.
Sedersi sui cazzi in quella maniera.

Alitò sulla foto e la lucidò con la manica della camicia.
- Li perdoni, signor Leonidas… sono dei delinquenti… ma… -
Per poco a Yorgos non scoppiò il cuore.
Leonidas Arkiatis, il defunto signore del villaggio, lo guardava con occhi di fuoco, lo sguardo indignato e furente.
- Signor Leonidas, le prometto che non succederà più. Il suo eterno riposo non sarà più disturbato da questi porci e da queste bocchinare… – .
Ora nella foto, però, era apparsa anche una mano dell’Arkiatis, che, con un dito, faceva cenno al buon Yorgos di avvicinarsi.
Sconvolto (ma nemmeno tanto, l’ottanta per cento di invalidità doveva pure contare qualcosa, no ?) Yorgos avvicinò la testa al viso incazzatissimo del signor Leonidas.
- La prossima volta… caro il mio custode ritardato… fatti i cazzi tuoi… stronzo! – gli disse il fu signore del villaggio.
Yorgos fuggì via terrorizzato, precipitandosi al cesso, e liberando, finalmente, l’intestino martoriato…

Da quella notte il cimitero divenne un bordello a cielo aperto.
Convinto che i defunti volessero gioire della vita degli altri, Yorgos accoglieva sempre sorridente gli scopatori di turno.
La tomba dell’Arkiatis era la più gettonata, e Yorgos, con tutto quell’andirivieni, si sentiva un pò anche il vigile urbano del villaggio.
Pensò anche di chiedere al sindaco una vera e propria divisa, con tanto di cappello e di fischietto.
Ad alcuni dei fornicatori di turno, per allietare ulteriormente la loro permanenza nel cimitero, arrivò ad offrire una birra.
E nella foto, Leonidas Arkiatis non solo ora era sempre sorridente, ma ogni volta che Yorgos passava da quelle parti, gli strizzava pure l’occhio.


FINE



VIAGGIO TRA I RICORDI (sec. parte)

Non più padrone delle sue azioni, sconvolto da quello che aveva visto e dalle parole della donna, lui si era inginocchiato dietro Sebastianos, il cazzo puntato verso il culo esposto dell’uomo: la mano di Venia gli aveva subito afferrato il pene, guidandolo e aiutandolo in quella penetrazione anale.

E, a quel punto, lui aveva definitivamente rotto gli indugi: preso l’uomo per i fianchi, lui aveva iniziato ad incularlo, a montarlo con veemenza, strappandogli grida di dolore e di piacere, mentre la moglie, sdraiatasi sul letto a gambe divaricate, aveva incominciato a masturbarsi freneticamente, godendo in continuazione e senza alcun ritegno, stravolta da quel rapporto omosessuale che si svolgeva davanti ai suoi occhi febbrili…

Aveva nuovamente cambiato stazione radio, e la voce di Elton John risuonava gradevole nell’abitacolo dell’auto.
Ora che la neve si era definitivamente tramutata in pioggia, e che le lastre di ghiaccio sull’asfalto erano in pratica sparite, lui aumentò notevolmente l’andatura, iniziando a sorpassare con più frequenza gli autoarticolati più lenti, sentendosi di nuovo totalmente padrone dell’auto.
Aveva sempre più fretta di arrivare alla frontiera e di trovare un bar aperto per prendersi quel benedetto caffè che da ore sognava.

Alla fine, anche se con una certa fatica, era venuto ancora una volta, inculando Sebastianos, e schizzando quel suo terzo orgasmo della serata nel preservativo che gli avvolgeva il cazzo.
Venia appariva stralunata e sconvolta anche lei, gli occhi ora chiusi, due dita della mano destra ancora infilate a fondo nella fica oscenamente aperta.
Lui aveva approfittato di quel momento per alzarsi dal letto, le gambe ancora tremanti mentre si rivestiva, e abbandonare Sebastianos e Venia su quel letto, al dolce languore del sesso appena consumato.

Dopo quella notte di assoluta follia, i rapporti con la coppia erano diventati per lui francamente imbarazzanti: Sebastianos e Venia gli avevano chiesto più di una volta di tornare da loro, ma lui, in crisi con se stesso e con la sua virilità, era riuscito a declinare sempre i loro inviti (anche se con molto dispiacere, perché, volente o nolente, quello che era accaduto in quella notte indimenticabile a lui era piaciuto da morire) tanto che, l’ultima sera della sua permanenza a Paros, vide i due, seduti al bar dell’hotel, chiacchierare amabilmente con una ragazza bionda, certamente straniera: con ogni probabilità, se non con certezza, quella notte sarebbe stata lei lo strumento dei giochi erotici di Sebastianos e Venia.
E quando finalmente giunse la mattina dell’ultimo giorno di quella settimana di vacanza, lui fu più che contento di ripartire e di lasciarsi alle spalle quello che era accaduto nella camera da letto della coppia.
Non li aveva più visti né cercati.
Venia e Sebastianos dovevano restare per sempre due fantasmi, figure indistinte nel suo più intimo e nascosto passato.

Il cartello stradale, storto e scolorito, a stento leggibile, indicava che mancavano solo trenta chilometri al confine di stato: trenta chilometri e avrebbe lasciato con estremo piacere la Bulgaria, per rientrare, dopo i due giorni del congresso, in Grecia.
Finalmente stava rientrando a casa.
Si sentiva stanco e sempre più assonnato.
Gli occhi, gonfi e pesanti, gli si chiudevano, e solo con un enorme sforzo di volontà lui riusciva ancora a tenerli aperti.
Il ricordo di quella notte con Sebastianos e Venia, come al solito, lo aveva svuotato di ogni energia: per lui, ritornare con il pensiero a quel letto era, ogni volta, come immergersi nell’acqua con la testa e restare in apnea fino a che il cuore ed i polmoni non arrivavano al punto di scoppiare.
Solo allora riusciva a riemergere, riempiendosi affannosamente i polmoni di tutto l’ossigeno che gli era mancato.
Sapeva di non essere come lo zio Leo: lui non era un “frocio”, e i fatti di quella notte di due anni prima rappresentavano solo un’eccezione nella sua vita, una vita interamente dedicata alle donne, alla loro conquista finalizzata al sesso.
Nei momenti di maggior depressione, però, lui non riusciva a non considerare quell’esperienza come un neo, come una macchia indelebile nella sua strepitosa carriera d’impenitente donnaiolo.
Era pur vero che si era scopato la splendida Venia, in lungo ed in largo, ma era altrettanto vero che si era fatto succhiare il cazzo da un uomo, aveva preso in mano il suo pene e aveva goduto mettendoglielo nel culo davanti alla moglie.
E tutto ciò gli era piaciuto infinitamente.
Al diavolo.
Era successo solo una volta, ed era ora di smetterla con tutte quelle menate.

Un chiarore, qualche centinaio di metri più avanti, indistinto nella pioggia e nella nebbia, attirò subito la sua attenzione.
Dopo alcuni secondi, quando fu più vicino, lui vide l’insegna illuminata: un posto di ristoro, aperto a quell’ora, su quella maledetta strada, gli sembrava un vero e proprio miracolo, perchè ormai non ci sperava più, convinto di poter prendere quel famoso caffè solo sull’autostrada greca verso Atene.
Attivò subito la freccia, segnalando il suo cambio di direzione:
Dopo pochi istanti ancora, spegneva il motore della potente BMW davanti alle vetrine appannate dalla condensa di un modesto bar per camionisti.

Il caldo soffocante del locale gli tolse il respiro.
Il bar era affollato da decine di camionisti, molti assiepati davanti al bancone, ed altri seduti attorno a tavolini di plastica verde, stracarichi di bottiglie di birra e di piatti sporchi: alcune cameriere si aggiravano indaffarate in tutta quella confusione.
L’aria era pesante, greve di odori di cibo, di fumo e del tanfo inconfondibile del sudore mischiato all’umido degli indumenti: lui, disgustato, decise all’istante che avrebbe preso soltanto un caffè e sarebbe ripartito immediatamente, non avendo alcuna intenzione di trattenersi più a lungo in quel lurido posto.

Si fece largo a fatica nella calca, conquistandosi un posto al bancone.
Ordinò il caffè ad un uomo sudato e scarmigliato che sembrava fosse dotato di quattro mani, tanto rapidamente serviva le consumazioni alla massa vociante che aveva davanti.
Lui pagò la consumazione e si allontanò dal bancone, appoggiando la tazzina su un basso frigorifero vicino ad una delle vetrate.

Il bar, a quanto poteva vedere, non offriva ai clienti solamente bevande e cibo: davanti ad una porta chiusa, sul fondo del locale, stazionavano tre o quattro ragazze, sommariamente vestite e pesantemente truccate.
Di tanto in tanto, qualcuno si avvicinava alle ragazze e, dopo un rapido scambio di battute, spariva oltre la porta con una di loro.
Di certo, a quelle puttane, visto il numero degli avventori che gremivano quel posto, il lavoro non mancava.
Per un attimo pensò di andare anche lui con una di loro: una moretta, fasciata in un succinto abito bianco e corto, con stivali neri sopra il ginocchio, gli piaceva in modo particolare e aveva subito attirato la sua attenzione.
Avrebbe potuto chiedere il prezzo e, quindi, varcare anche lui la porta in fondo al bar: si sarebbe fatto fare magari un bel pompino, una pausa rilassante e gradita in quel lungo viaggio che sembrava non dovesse aver mai fine.

Scacciò rapidamente il pensiero perchè non voleva perdere altro tempo: e poi, ad Atene, la sera successiva, ci sarebbe stata Yvonne a farlo divertire.
La piccola, dolce, sensuale e perversa Yvonne.

Lasciò la tazzina vuota sul frigorifero, si diresse verso i bagni e svuotò la vescica; poi, con un’ultima occhiata alla brunetta, uscì dal bar e risalì in auto.
Ancora pochi chilometri e sarebbe rientrato in Grecia.

Di nuovo seduto comodamente in auto, lui aumentò di molto la velocità, anche se la pioggia continuava a cadere fitta e la nebbia riduceva ancor di più la visibilità.
La rapida sosta ed il caffè preso al bar non lo avevano aiutato affatto a sconfiggere la sonnolenza: alzò il volume della musica e si ripromise, per l’ennesima volta, di restare concentrato sulla guida, malgrado fosse stufo marcio di quel viaggio infernale.

Ad un tratto, gettando una rapida occhiata al sedile accanto al suo, sentì tornare immediato il buonumore, perchè dentro la busta bianca che si trovava sul sedile, appoggiata sopra la sua ventiquattrore, c’erano due falli in lattice, esageratamente grandi, il primo verde intenso, l’altro rosa pallido.
Erano il regalo che aveva comprato a Yvonne, pensò sorridendo e con un delizioso brivido d’eccitazione.
Al solo pensiero della ragazza sentì l’erezione montare immediata e premergli nei pantaloni.
I ricordi legati a Venia e Sebastianos ora erano finalmente lontani anni luce.

La ragazza, Yvonne, era francese, di Parigi per l’esattezza, e lavorava come segretaria all’ambasciata di Atene del suo paese.
Erano già due anni che era stata trasferita in Grecia: Yvonne era una ragazza bella e disinibita, sfrontata e maliziosa, amabile e puttana come poche.
Mai sazia di sesso, al limite dall’essere ninfomane, lui era perfettamente a conoscenza, perché lei non ne aveva fatto mai mistero, del fatto che andava a letto con chiunque le capitasse a tiro, senza alcuna distinzione di sesso, infilandosi sotto le lenzuola con compagni e compagne sempre diversi: all’ambasciata erano pochi gli uomini che non se l’erano scopata, ed anche varie lesbiche avevano approfittato di quella sua assoluta disponibilità sessuale.
Ma la cosa, a lui, lo lasciava del tutto indifferente, non essendo assolutamente geloso di lei.
Quello che a lui interessava solamente era che Yvonne andasse a letto anche con lui, e tutte le volte che lui ne sentiva la voglia ed il desiderio.
Non cercava nient’altro in quel rapporto, come poi non cercava nient’altro in tutti i suoi rapporti con le donne: solo il sesso era al centro dei suoi pensieri, un’esigenza primaria, da soddisfare rapidamente e senza ulteriori e fastidiose complicazioni.

La francesina, di appena ventitrè anni, amava fare uso di falli artificiali per soddisfare le sue insaziabili voglie.
Ne possedeva d’ogni tipo e dimensione, ed era più che felice di riservargli spettacoli incredibilmente erotici e frizzanti.
Fra loro, con il passare del tempo, si era instaurato una sorta di preciso rituale: di solito, era il medesimo che si ripeteva ogni volta, praticamente immodificabile. Per la verità, era un modo di fare l’amore che Yvonne, in realtà, gli aveva imposto, ma che lui si era fatto imporre più che volentieri.
I loro incontri si svolgevano, dunque, in questo modo.
La ragazza lo faceva accomodare su una poltrona, o anche su una sedia, accanto al letto, completamente nudo.
Quindi Yvonne andava a sdraiarsi, anche lei ovviamente nuda, sulle lenzuola e, con studiata lentezza, prendeva ad accarezzarsi le tette, a massaggiarsi il corpo, a far andare le mani su ogni centimetro della sua pelle, così perfetta ed ambrata come lui aveva raramente riscontrato in una donna.
E la pelle non era di certo l’unica parte del corpo di Yvonne che lui apprezzava: viso, seno, gambe, sedere, tutto concorreva a fargliela apparire sensuale ed eccitante: ma era il suo modo di fare, così allegro e solare, che lo intrigava e lo legava a lei così intensamente.

Quando Yvonne si sentiva eccitata al punto giusto (e questo avveniva quando lui era eccitato già da un bel pezzo, ed il trattenersi iniziava ad essergli quasi impossibile), la ragazza francese iniziava a penetrarsi, tenendo le gambe incredibilmente divaricate, con un lungo fallo, sempre di un colore diverso (quello che lui preferiva, però, era quello nero, sicuramente non fra i più lunghi, ma di una notevole circonferenza); e lui doveva restare a guardarla, non staccarle mai gli occhi di dosso, accarezzandosi il pene, ma evitando di masturbarsi, e senza assolutamente godere.
Era quella, per lui, una tortura veramente deliziosa, alla quale si sottoponeva però con estrema arrendevolezza, ricompensato dal fatto che, dopo un tempo che spesso gli sembrava interminabile, e durante il quale la ragazza si scopava senza sosta con il finto cazzo, Yvonne lo supplicava di penetrarla anche da dietro, di aprirle il culo in due con un secondo grosso fallo.
A quel punto, lui la faceva attendere sempre per qualche minuto, quasi a volersi prendere una rivincita per quell’intollerabile tensione erotica a cui Yvonne lo stava sottoponendo, fino al momento in cui il desiderio di lei si faceva ancora più violento: allora lui si accostava al letto, le umettava lungamente l’ano con la saliva, la penetrava con le dita per prepararla, e quindi la inculava con il secondo fallo che la ragazza aveva scelto in precedenza.
E così, presa davanti e dietro, Yvonne raggiungeva orgasmi travolgenti, godendo in ogni fibra del suo corpo, urlando frasi oscene ed irripetibili, e quasi dimenticando la presenza dell’uomo.

Insomma, dopo tutto questo giocare con i falli, e come si può ben immaginare, lui era sconvolto dal desiderio, con i testicoli pieni e dolenti per essersi trattenuto così a lungo.
Seguendo fedelmente quel rituale che avevano instaurato, lui si andava a rimettere nuovamente seduto, sulla poltrona o sulla sedia, e Yvonne, inginocchiandosi eccitatissima tra le sue gambe, afferrava con la mano il cazzo congestionato, scappellandolo fino in fondo, esponendo così la larga e sensibilissima cappella, per poi scivolare nuovamente con la mano verso la punta, in una dolce e suadente sega.
Era un lentissimo supplizio che lo avvicinava passo dopo passo al piacere, così stoicamente a lungo represso.
Quando Yvonne sentiva che lui stava per venire, avvicinava il viso all’asta dura e svettante, passava sapientemente la lingua sulla cappella e, aumentando il ritmo con la mano, si faceva schizzare del suo sperma le labbra, le guance, gli occhi…
E lui, finalmente, raggiungeva il tanto sospirato orgasmo.

Solo più tardi Yvonne gli si concedeva.
Si sdraiava con uno sguardo perverso sul letto e, a gambe nuovamente divaricate, la fica ancora inondata dagli umori degli orgasmi precedenti, lo invitava a penetrarla.
E lui non la faceva mai attendere troppo, desiderandola intensamente.
Appena il tempo di riprendersi dalla prima eiaculazione, e si accostava alla ragazza con il cazzo di nuovo duro ed eccitato, e la scopava violentemente, la inculava fino allo sfinimento, donandole orgasmi continui ed impetuosi.

Una delle ultime volte in cui si erano incontrati, dopo aver fatto per l’ennesima volta l’amore, Yvonne gli aveva proposto di avere un rapporto a tre, ospitando nel loro letto anche una ragazza che aveva conosciuto (e con la quale aveva già fatto sesso) solamente una decina di giorni prima.
Lui aveva ovviamente accettato, e con un sorriso si era chiesto se fosse proprio la sera successiva quella in cui avrebbe avuto Yvonne e la nuova amica a sua completa disposizione…

Il camion viaggiava lento ed ansimante nella notte.
L’autista, stanco per il lungo viaggio, contava mentalmente i chilometri che mancavano per arrivare a Sofia.
Guidava da ore ed ore, senza interruzione, il pesante autoarticolato carico di pesce surgelato, destinato a due ditte della capitale bulgara.
Gli occhi che pericolosamente gli si chiudevano per la stanchezza, l’uomo non vedeva l’ora di arrivare a destinazione, scaricare la merce ed andarsene a casa; e poi, quella dannata pioggia che scendeva torrenziale e sembrava non finire mai, e che rendeva la guida ancor più faticosa e difficile.
Aveva sentito alla radio che, più avanti, avrebbe incontrato anche la neve: dalle voci gracidanti dei colleghi, voci che provenivano dal baracchino sotto il cruscotto, aveva capito che si trattava di una vera e propria bufera.
Imprecò per la millesima volta contro la sua cattiva sorte.
Sbadigliò, quindi, quasi fino a slogarsi la mascella, continuando a maledire in cuor suo il lavoro che faceva ormai da trent’anni, e che, inesorabile, gli stava risucchiando la vita.

Ah… Yvonne… domani le avrebbe subito telefonato… aveva proprio voglia di vederla… l’avrebbe fatta felice con il suo regalo… di certo lei gli avrebbe mostrato subito quale uso ne sapesse fare… e poi, se ci fosse stata anche quell’amica… lo spettacolo avrebbe rischiato d’essere superbo…

Fu in pratica a metà di una larga curva che si apriva sulla sinistra che l’autista del camion vide i fari dell’auto che stava venendogli incontro nella pioggia e nella nebbia.
Proveniva chiaramente in senso contrario, e stava lentamente abbandonando la giusta corsia di marcia, invadendo ogni istante di più quella del traffico che sopraggiungeva in senso opposto.
E correva.
Correva troppo velocemente.
Il camionista ebbe solo una frazione di secondo per sperare che il guidatore della vettura si accorgesse del suo autotreno, e che rientrasse con rapidità nella sua corsia di marcia, riprendendo la giusta traiettoria.

Sì… ne era più che certo… la ragazza francese avrebbe gradito moltissimo il suo regalo, e gli avrebbe offerto uno dei suoi fantastici spettacoli… la vedeva già, nuda, eccitata, bella e sensuale… la sognava fremente di desiderio, disinibita e scatenata come solo lei poteva esserlo… e alla fine l’avrebbe scopata, ad ennesima dimostrazione che lui non era assolutamente “frocio”…

Il camionista iniziò a frenare convulsamente, attaccandosi disperato al potente clacson, urlando e bestemmiando in modo concitato, conscio che tutto sarebbe risultato ormai inefficace, perché le ruote del gigantesco automezzo non riuscivano a far presa sull’asfalto viscido e bagnato.
E, infatti, fu tutto inutile.
La potente auto, senza nemmeno accennare ad una frenata dell’ultimo momento, si andò a schiantare rovinosamente contro il muso dell’enorme TIR, in un orribile fracasso di lamiere contorte e di vetri che esplodevano.
E poi, per alcuni lunghissimi secondi, fu il silenzio a divenire assordante.

- La solita jella… bastava che non si addormentasse per altri otto chilometri… e poi il tutto sarebbe stato di competenza dei greci… e noi ce ne saremmo stati al caldo da qualche parte… -
- Già. Però anche dall’altra parte hanno i loro problemi… ho sentito che, subito dopo il confine, c’è stato un tamponamento a catena… con una decina di feriti… -
- Uhm… maledetto questo tempo di merda… -
I due agenti della polizia stradale bulgara osservavano depressi ed infreddoliti i vigili del fuoco intenti a tagliare le lamiere della potente BMW con la fiamma ossidrica.
Il corpo della vittima era rimasto incastrato nell’abitacolo dell’auto, ridotta ad un ammasso di ferraglia contorta.
Altri agenti, in mezzo alla strada, stavano cercando di regolare il traffico che continuava a scorrere, lento ma incessante.
Tutta la scena era illuminata dai lampeggianti azzurri delle auto della polizia e da quelli rossi del camion dei pompieri; anche una potente fotoelettrica era puntata sui resti della BMW.
L’autista del camion, intontito, era seduto in una delle auto della polizia, con un caffè tra le mani: beveva a piccoli sorsi, lo sguardo fisso nel vuoto, le guance rigate dalle lacrime, incapace di capire perché quel povero diavolo si fosse andato a schiantare proprio contro il suo camion.
Nella notte piovosa, le scintille della fiamma ossidrica sembravano luminarie di una festa di paese, una sagra povera e dimenticata da tutti.
Un’ambulanza, a luci spente, attendeva a lato della strada.
L’autista, il medico e gli infermieri stavano fumando le loro sigarette, in silenzio, battendo i piedi per riscaldarsi: avrebbero dovuto solamente portare un corpo all’obitorio, senza ormai alcuna fretta.
Non c’erano più vite da salvare quella notte.

Ad un certo momento, i due agenti della stradale, sempre più bagnati ed intirizziti, videro avvicinarsi uno dei pompieri.
- Ehi, ragazzi… guardate un pò cos’ho trovato… -
Tra gli spessi guanti che gli proteggevano le mani teneva i due falli di gomma che avrebbero dovuto essere il regalo per Yvonne.
- Dove diavolo stavano ? – chiese, incuriosito, uno dei due agenti.
- Nell’auto di quel poveraccio. Voi che dite ? Sarà stato un frocio, magari, eh ? – rispose il vigile del fuoco, ridacchiando divertito.

A quella battutaccia, i due poliziotti si guardarono, perplessi ed incerti.
Che cazzo !
Ci vuole rispetto per i morti.
Deferenza e rispetto per tutti.
Froci o meno che fossero.
Non si scherza davanti alla morte.
Con la scusa di andare ad aiutare i colleghi che dirigevano il traffico, i due agenti si allontanarono dal pompiere, che, ammutolitosi, si continuava a rigirare ancora tra le mani i due falli di gomma che Yvonne non avrebbe mai ricevuto in regalo.

Smise di piovere soltanto quando la carcassa dell’auto venne rimossa dal carro attrezzi.
E, quasi contemporaneamente, anche la nebbia si dissolse, spazzata via da un improvviso vento che annunciava finalmente un miglioramento del tempo.

FINE